Redazione
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28/11/2022 - Ultimo aggiornamento 12/12/2023

Analisi statistica

[tempo di lettura: 4 minuti]

L’analisi statistica si avvale dei metodi matematici per analizzare i risultati ottenuti negli studi scientifici con outcome numerici, e ne giudicano la rilevanza.

La statistica può essere di tipo descrittivo (ad esempio può rispondere alla domanda: “Quanta parte della popolazione di una città è sopra ai sessant’anni?”) oppure di tipo inferenziale, cioè può studiare i dati di un campione di popolazione per valutare se possono essere generalizzati alla popolazione intera.

Semplificando al massimo, e a scopo esclusivamente illustrativo, si può affermare che i ricercatori impegnati in un tipico studio clinico dividono la popolazione di partenza in due gruppi e formulano un quesito, come potrebbe essere per esempio: “L’intervento che intendiamo applicare causerà una differenza tra chi lo riceve e chi non lo riceve?”

Ai fini della conduzione di uno studio, la procedura scientifica prevede che si parta dal presupposto che sarà vera la cosiddetta ipotesi nulla (H0), ovvero si dà per scontato che al quesito bisognerà dare una risposta negativa, cioè l’intervento applicato non sortirà alcun effetto. In tal caso, alla fine dell’esperimento non si riscontreranno differenze fra i gruppi, oppure le differenze rilevate saranno dovute soltanto al caso, o saranno piccole.

In caso contrario, quando le differenze saranno sufficientemente grandi, o per usare il linguaggio tecnico statisticamente significative, si potrà accettare la cosiddetta ipotesi alternativa, ovvero si potrà affermare che le differenze tra i gruppi non sono dovute al caso. Se ciò si verifica i ricercatori possono rispondere positivamente al quesito della ricerca, concludendo che l’intervento causa una differenza tra chi lo riceve e chi no.

L’analisi statistica serve appunto a fornire gli strumenti adatti a misurare le differenze tra i gruppi, allo scopo di capire se sussiste questa differenza statisticamente significativa.

Per effettuare i calcoli i ricercatori possono ricorrere a molti tipi di test statistici, ciascuno dotato di caratteristiche che lo rendono più idoneo ad analizzare determinati tipi di dati. Ad esempio, per confrontare due proporzioni o due percentuali si può usare il test del chi quadrato, mentre per calcolare la differenza fra le medie di due gruppi si può ricorrere al test t di Student.

Ipotizziamo che i ricercatori impegnati in uno studio RCT abbiano raccolto i cosiddetti dataset, ovvero i vari valori numerici riferiti a un certo tempo iniziale e a un certo tempo finale (prima e dopo l’intervento previsto dal progetto di studio), calcolati per ciascuno dei soggetti inclusi nel gruppo di studio e per ciascuno di quelli inclusi nel gruppo di controllo.

Se vengono soddisfatte le precise condizioni di applicabilità di ognuno dei test si potrà procedere all’analisi statistica. Lo scopo sarà quello di capire se sussiste una differenza e, in caso affermativo, di quantificarla.

In altre parole, l’analisi statistica deve consentire ai ricercatori di trovare un valore di probabilità, o p-value, che consenta loro di stimare sufficientemente improbabile il fatto che la differenza osservata tra i gruppi dello studio sia dovuta al semplice caso.

Il valore numerico di questa probabilità viene misurata dal valore p, che essendo appunto una probabilità può assumere solo valori compresi fra 0 e 1. Se il valore p è uguale a 1, significa che è soddisfatta l’ipotesi nulla, ovvero che non esistono differenze fra i gruppi. Quanto più piccolo è il valore p, tanto maggiore è la probabilità che i risultati non siano ascrivibili al caso.

Se i ricercatori impostano un livello di significatività statistica del 5%, per consentire di rigettare l’ipotesi nulla e accettare l’ipotesi alternativa il valore p deve risultare inferiore a 0,05 (rapporto di 1/20). Per calcolare il valore p si ricorre ad apposite formule dei fogli di calcolo o dei software statistici.

Come esempio pratico si cita uno studio di Fornari et al.1

Questo studio prevedeva la somministrazione dell’OMTh, una sigla che rappresenta la dicitura internazionale per indicare l’Osteopathic Manipulative Therapy, cioè il trattamento manipolativo osteopatico somministrato da operatori non laureati in medicina, contrapposto all’OMT, che invece è il trattamento somministrato dai medici osteopati.

I 20 partecipanti dovevano svolgere alcuni calcoli aritmetici per 5 minuti dinanzi a una commissione di tre persone (evento scatenante lo stress), successivamente metà di essi riceveva un’unica sessione di OMTh.

Venivano fatte registrazioni elettrocardiografiche prima e dopo la sessione, valutando la frequenza cardiaca e l’HRV, alla ricerca del rapporto LF:HF, considerato un indice del bilancio simpato-vagale. Venivano inoltre prelevati campioni di saliva per determinare il cortisolo.

Dall’analisi statistica sono emerse differenze statisticamente significative (p < 0,05) tra il gruppo di studio trattato con tecniche craniosacrali e il gruppo di controllo, al quale veniva somministrata una terapia simulata.

Per informazioni più complete si rimanda all’articolo citato1, all’ampia letteratura sull’argomento e al volume curato da Francesco Cerritelli e Diego Lanaro2.

Bibliografia

  1. Fornari M, Carnevali L, Sgoifo A. Single Osteopathic Manipulative Therapy Session Dampens Acute Autonomic and Neuroendocrine Responses to Mental Stress in Healthy Male Participants. J Am Osteopath Assoc. 2017 Sep 1;117(9):559-567.
  2. Cerritelli F, Lanaro D. Elementi di ricerca in osteopatia e terapie manuali. Napoli: Edises, 2018.

 

 

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